Startup: cerchiamo una via italiana

di Gianluca Salvatori, Presidente Progetto Manifattura

E’ il momento delle start-up. Non se ne è mai parlato tanto come oggi. Con crescenti aspettative e non senza qualche concessione alle tendenze del momento. La necessità di nuove politiche per la crescita e la ricerca di soluzioni alla crisi occupazionale, specialmente tra i giovani, spingono verso un’attenzione spasmodica alla creazione di imprese. Meglio se innovative, ovvero imprese con più probabilità di posizionarsi con vantaggio nel nuovo contesto economico che sta emergendo a seguito della crisi. Per rimpiazzare le troppe aziende che purtroppo non ce la fanno a sopravvivere.

Però questa materia più è oggetto di strategie, piani e dibattiti, più sembra diventare evanescente. Ognuno tende ad utilizzare il termine start up per affermare la propria visione di politica industriale e di innovazione. Con lo stesso termine si indicano approcci e obiettivi tra di loro anche molto diversi: si spazia da chi ribattezza start up il vecchio spin off universitario a prevalenza tecnologica e costituito da ricercatori, oggi non più di moda forse a motivo delle poche esperienze di successo di cui l’Italia può vantarsi, fino a chi si riferisce alle start up per indicare genericamente ogni tipo di attività economica nella sua fase di avvio, senza andare troppo per il sottile quanto a contenuto high tech o legami con la ricerca accademica. Passando per un’ampia serie di distinzioni e posizioni che riguardano tanto la necessità quanto la tempistica degli interventi di finanziatori, con le cinquanta e più sfumature di grigio che vanno dalseed money all’angel funding, dal venture capital al private equity. Linguaggio esoterico per dire che senza finanziamenti un’impresa non decolla: salvo intendersi su come e quando queste risorse sono indispensabili.

Infatti, secondo una linea di pensiero che tiene lo sguardo fisso sulla Silicon Valley, anche a costo di qualche strabismo, vere start up sono solo quelle che si situano nella fase embrionale di un percorso ad ostacoli, fortemente darwiniano, destinato a portare nel più breve tempo possibile una minoranza di selezionatissime iniziative alla quotazione in borsa o alla vendita dell’impresa ancora in fasce ad una azienda già affermata. La start up secondo questa visione è un’impresa che deve crescere in fretta, con una robusta iniezione di mezzi finanziari nei primi due o tre anni. Ed i giovani imprenditori sono visti come centometristi che devono dare il massimo nello sprint iniziale, per poi eventualmente – una volta ripagati dei loro sforzi con somme cospicue – buttarsi a capofitto in un’altra impresa o in qualche caso (quando le somme non sono solo cospicue, ma molto di più) dedicarsi alla filantropia sociale o culturale.

Questo è un quadro, non privo di qualche venatura mitologica, al quale negli ultimi due decenni ci hanno abituato le cronache finanziarie (e in qualche caso anche mondane, visto che gli startuppers di successo sono le nuove celebrità del nostro tempo). Fatto di grandi exploit, dal garage di casa a Wall Street, ma anche di condizioni molto specifiche. Non a caso si tratta di esperienze lontane, molto lontane, dalla nostra penisola. Malgrado i tentativi di replicarle.

Viene quindi da chiedersi se la via italiana alle start up non debba essere differente. Ci sono infatti alcuni aspetti che contraddistinguono il nostro contesto, che si tende a sottovalutare. Con il rischio di rendere anche questa una delle tante infatuazioni che generano più comunicazione che sviluppo.

Il primo aspetto da non perdere di vista riguarda i settori: non tutti sono adatti ad una crescita fulminea, come avviene per le ICT. Le aree in cui l’economia italiana può cogliere maggiori opportunità - dall’agro-alimentare al turismo, dalla meccatronica alla green economy, dalla gestione di beni ambientali e culturali ai servizi del nuovo welfare - non hanno una dinamica di sviluppo assimilabile a quella di una web company. Del resto, per fare un esempio, anche gli Stati Uniti si stanno rendendo conto che per creare imprese che portino sul mercato nuovi prodotti nel settore dell’energia rinnovabile non ci si può affidare allo stesso modello di business che ha reso possibile l’esplosione delle aziende digitali. Ogni settore ha le sue caratteristiche e la ripresa economica non può basarsi solo su un ambito industriale, per quanto promettente. Un pluralismo di opzioni strategiche è necessario, ed è meglio se queste opzioni nascono da una attenta lettura delle reali vocazioni dei territori. 

Un altro aspetto riguarda invece il contesto industriale e finanziario. L’Italia - sembra banale dirlo ma a volte è necessario - non offre le stesse opportunità di collocamento azionario o di acquisto da parte di grandi gruppi che caratterizzano il paese-culla delle start up. Dover fare i conti con un mercato borsistico di periferia e con un tessuto dominato dalla piccola e media impresa significa imparare a giocare su un terreno totalmente diverso da quello le cui regole si insegnano nelle business school americane. Non è necessariamente un male, basta esserne consapevoli e calibrare di conseguenza le proprie ambizioni. Sul nostro terreno di gioco non è affatto impossibile che si affermino imprese innovative e capaci di leadership internazionale. Solo che questo avviene mettendo in pratica un concetto di innovazione in cui la dimensione tecnologica non è la sola a contare (anzi, spesso prevalgono elementi che riguardano piuttosto l’innovazione nel gusto, nell’approccio culturale, nell’orientamento sociale) e compensando la carenza di grandi imprese con la forza delle reti a maglie strette tra piccole imprese, secondo la logica che è stata dei distretti industriali e che ancora oggi continua a riproporsi in forme nuove.

E’ vero dunque che in Italia le start up possono contribuire a creare nuove opportunità di sviluppo ed occupazione, ma a condizione di comprendere ciò che rende specifico e diverso il nostro contesto. Le azioni conseguenti, dalle misure di incentivazione a livello nazionale ai singoli programmi locali, saranno tanto più efficaci quanto più mostreranno di aver chiaro che l’obiettivo di trasformare idee innovative in progetti di impresa non si ottiene ripetendo formule o alimentando miti, ma volando alla giusta altezza per vedere nel dettaglio il terreno su cui si interviene, favorendo la crescita di specializzazioni coerenti, fornendo strumenti per facilitare le connessioni, e credendo in un’idea aperta e plurale di innovazione, in cui l’ultima parola non sia per forza quella della tecnologia.

 

pubblicato su Corriere del Trentino sabato 26 gennaio 2013